STORIA DI ORLANDO:


PARTIGIANO, NOVARESE, RESISTENTE

 

 

A tutti quelli che hanno creduto
nella libertà
e ancora resistono

 

Cera un ragazzo di nome Orlando. Aveva 17 anni e faceva il partigiano... Un'altra storia della Resistenza? Adesso? Dopo più di sessantenni? Ebbene, sì. Proprio adesso, perché "viviamo davvero in tempi bui", sull'onda dilagante di un revisionismo che nega, o sminuisce, o si appropria indebitamente di una pagina di storia.
Quella storia appartiene a noi, ci identifica, e ha contribuito a creare quel poco o tanto di democrazia che qualcuno vorrebbe di nuovo ridurre a brandelli.
Così Roberto Manzini ed io, Paola Assali, siamo andati da Orlando Foglio, un compagno storico della lega SPI di Novara, per riallacciare i fili della memoria, per ritrovare l’orgoglio del nostro passato da trasformare in nuova speranza.
Orlando ci ha ricevuti nella sua casa, in una sala piena di libri e di quadri, tutti dipinti da lui: ritratti della moglie, dei figli, dei nipoti, e un bell’autori-tratto, che lo rappresenta col microfono in mano, mentre parla ad un gruppo di compagni dello SPI, riuniti nella piazzetta davanti a casa sua... Orlando racconta e ricostruisce puntuale la storia di un bambino, di un ragazzetto che diventa grande con la guerra partigiana e che a poco a poco acquista la coscienza politica e sindacale che lo accompagnerà tutta la vita.

 

Orlando nasce a Quarna di Sotto (Novara) il 23 maggio 1926, da una ragazza-madre cacciata di casa dai fratelli per la vergogna. Dei primi anni, ha pochi ricordi: la nonna materna, maestra elementare; il nonno molto più anziano di lei; il marito della mamma, un uomo generoso (dati i tempi!) che ha scelto per lui il nome Orlando, in onore dell’ariostesco paladino delle cui gesta era avido lettore; i paesi; le cascine
in cui la famiglia si spostava di San Martino in San Martino...
Prima elementare. Loro abitavano ai Funtanasci, un luogo ben lontano dal paese; la scuola era nel castello, nel centro del paese; quando nevicava o pioveva- cioè quasi sempre- Orlando non andava a scuola. I suoi voti erano pessimi, tranne quello in condotta, visto che stava sempre zitto, e il piccolo viene bocciato. Ma non è questo il dramma. La mamma resta vedova, si risposa, nascono altri bambini e la famiglia si trasferisce a Novara, alla Bicocca. Ora Orlando può frequentare la scuola, anzi le scuole, poiché passa attraverso quasi tutte le Elementari di Novara. Finisce la quinta; la maestra vorrebbe che lui continuasse gli studi, ma come si fa? I bimbi in casa sono ormai quattro, la vita è durissima, la disoccupazione pesante. Orlando ha appena 10 anni, nel 1936, ma di quell'anno ricorda che la Wild lavorava solo tre giorni la settimana.

La storia del secondo marito della mamma rappresenta bene l'epoca: nel 1917 ha 18 anni e deve partire per la guerra - la Grande Guerra! - ma scappa; lo prendono e lo processano a Gaeta per diserzione. L'alternativa che gli off rono è: o la Compagniadegli Arditi, o il muro . La scelta è ineluttabile. Il giovanotto va in guerra, insieme agli altri Arditi a cui viene dato da bere molto Pernod per indurli a combattere; viene ferito alla schiena dove gli restano conficcate sette schegge. Gli assegnano una pensione di invalidità, che Mussolini farà togliere nel 1926, perché gli ex disertori non la meritavano, anche se in guerra c'erano stati. Sarà anche questa una delle tante ingiustizie su cui dovrà riflettere il ragazzine Orlando?
Orlando Foglio

Tornando alla nostra storia, abbiamo già detto che la vita è assai dura: il capofamiglia - che Orlando chiama secondo papà - fa lavori vari e saltuari e quindi anche il ragazzo deve darsi da fare, accettando quel che e’è. Una fabbrica di armadi, poi un'officina meccanica, dove c’era una squadra di sbavatori. Questo è un lavoro pesantissimo e consiste nel grattare via con scalpelli o quant'altro la bava di metallo in eccedenza, dopo la forgia. Orlando lo fa, ma con la promessa di essere promosso ad apprendista meccanico. Di sera frequenta l’Istituto tecnico "Omar", dove c'erano vari corsi di specializzazione; lui dal 1940 al 1943 segue i corsi di aggiustatore meccanico e disegnatore.                   
In questi anni la guerra entra di prepotenza nella vita di tutti, quando Mussolini il 10 giugno 1940 dichiara guerra alla Francia che si è appena arresa alle truppe naziste.
Un episodio tra i tanti, che segna la formazione di Orlando. Siamo nel 1941. Il Podestà Meriggi(1) arriva in fabbrica e tiene un comizietto per indurre gli operai -100 in fonderia e 40 in officina - a seguirlo in piazza, dove gli altoparlanti trasmettono l'annuncio dell'ingresso dell'Italia in guerra contro l'Unione Sovietica. Il Duce fa il suo discorso; la piazza gremita, al grido unanime "O Mosca o morte!", applaude vigorosamente. Orlando, preso da entusiasmo, pure. Ma accanto a lui c'è un compagno, socialista di vecchia data, che gli dice in dialetto: "Questo qui ci manda tutti in malora, l'hai capito o non l'hai capito? Perché questa è la disgrazia che abbiamo!" e gli pesta violentemente un piede, tanto che il battimani si trasforma in urlo di dolore. Da quel momento ad Orlando si " tolgono le fette di salame dagli occhi". In fondo, che ne sa lui di fascismo e antifascismo? Comincia ad interrogare il patrigno, che aveva lavorato in Francia dove - diceva - gli operai francesi consideravano male il fascismo: in più, nel 1932 o nel 1933, in occasione di una venuta di Mussolini a Novara, era stato tenuto dentro per quattro o cinque giorni. In altre parole, era considerato un antifascista, non aveva mai preso la tessera e per questo era sempre rimasto un lavoratore precario.
Sono questi dal '40 al '43 gli anni in cui Orlando costruisce la sua carriera di operaio, tra la consapevolezza di essere bravo e quel sogno di fare il meccanico. E finalmente, dopo varie esperienze che ci racconta dettagliatamente, entra alla S. Andrea, grazie alla raccomandazione di Dom Ponzetto.
Era quest'ultimo un prete sui generis, tutto dedito all'aiuto dei più poveri, con ogni mezzo, anche ai limiti del lecito. Orlando lo frequentava perché dai Salesiani si poteva giocare a pallone e la domenica, se si faceva la comunione, si riceveva un panino con la bologna(l). Orlando ne ricorda con un sorriso alcune gesta, di cui è stato compartecipe. Una volta hanno rubato i materassi del Convitto; il sacerdote li buttava dalla finestra, Orlando li caricava su un carrettino a mano e li portavano ai baraccati che stavano in Piazza d'Armi. Ancora ai baraccati l'infaticabile Dom portava la luce elettrica: lui reggeva la scala di legno, Orlando tagliava i fili attorcigliati, uno per volta, e coi 50 metri di filo così ottenuto faceva un bell'impianto per i suoi protetti, rubando la corrente dai fili vicini.
La guerra è sempre di più una sequela di sconfitte tragiche. Per tutte, basti il ricordo della Campagna di Russia, del terribile ritorno a piedi, nella morsa del gelo e della fame, ricordo ben vivo, dopo anni ed anni, nelle parole dei pochi sopravvissuti.
Siamo ormai nel 1943, l'anno dello sbarco in Sicilia degli Alleati e della caduta di Mussolini, a luglio. Ora lo sfascio è totale, il disorientamento di tutti anche. Orlando ricorda il coprifuoco, il divieto di fare riunioni di più di tre persone, le pagine bianche imposte ai giornali. E arriva l'8 settembre. Tutti i Novaresi, e non solo loro, erano convinti che la guerra fosse finita e, davanti alle truppe tedesche che minacciavano l’occupazione di fabbriche, caserme, città, chiedevano armi che non c'erano. Il 9 settembre entrano i Tedeschi a Novara, con le camionette, i sidecar, gli autoblindo, da Corso Torino e da Corso Milano, e occupano l’istituto Santa Lucia. Le caserme sono vuote, i soldati scappati, gli ufficiali senza ordini; i Cavalleggeri sono morti quasi tutti in Russia, dove lanciavano cavalli contro i carri armati. I civili invadono le caserme e portano via tutto quello che trovano. Davanti alla Perrone c'è Orlando con un suo amico ed un compagno di Cerano, Giuseppe Ubezio anche lui di 17 anni, lavoratore delle Poste. Arrivano due tedeschi in sidecar, Giuseppe ha qualcosa in mano (una ricarica di fucile, si disse poi); i due scendono, lo spintonano contro il muro e gli scaricano addosso una mitraglietta. Quel ragazzo diviso in due Orlando non l'ha ancora dimenticato.
Dappertutto c'è confusione, c'è paura, ci sono di nuovo le squadracce in azione.             
In fabbrica, nonostante la direzione filofascista e il controllore tedesco, gli operai riescono a sabotare la produzione, facendo male ad arte le macchine utensili. Alcuni, noti come antifascisti, vengono arrestati. Il Comitato antifascista, presente da tanto tempo, ora diviene segreto, ma molti conoscevano i nomi dei suoi componenti. Orlando stesso è ben noto, perché impegnato nel distribuire volantini, per sollecitare la ribellione, o almeno la non-collaborazione(2).
Coi primi arresti in fabbrica, tutti gli antifascisti dell'arco costituzionale cominciano ad avere paura e così si decide che Orlando, che li conosceva tutti, deve andare in montagna: un suo arresto è troppo pericoloso: giovane com'è, i mezzi per farlo parlare ifascisti li avevano, e come! !
 Così il ragazzo con un dirigente
del PCI sale al Briasco, un monte di 1100 m. sopra Celio, sopra Borgosesia. Vanno in trenino fino a Roccapietra, dove c'è il contatto.
Segno di riconoscimento, La Domenica del Corriere aperta sulla pagina illustrata dal Beltrami. Apre il giornale, un altro ragazzo apre il suo alla stessa pagina. Parola d'ordine: "mi manda Giovanni". È lui! Si sale a piedi al Briasco, da Roccapietra, tra paesi noti.
II ragazzo che accompagna Orlando ha un anno più di lui e si chiama Gaspare Pajetta, quasi costretto a diventare partigiano dal fratello Giancarlo. Gaspare morirà pochi mesi dopo, a febbraio del 1944, a Mengolo. I due giovanotti fanno amicizia, nel gruppo di 47 elementi guidato da Moscatelli, Commissario politico, e Gastone, Comandante militare (Cino e Ciro!) "Lì ho sperimentato i primi germogli di democrazia -dice Orlando- Tutto veniva deciso insieme: le proposte venivano fatte dai più vecchi antifascisti, ma ognuno poteva dire la sua".
Il gruppo fa capo ad un'organizzazione capillare che, in particolare nella Bassa Lomellina, con l'aiuto dei contadini nascondeva moltissimi ex-prigionieri alleati, di tutte le nazionalità. Moltissimi di loro volevano passare il confine con la Svizzera e tornarsene a casa e in questo erano aiutati dai partigiani in collaborazione con gli Spalloni (cioè i contrabbandieri) espertissimi conoscitori di ogni passaggio. In certi periodi su al Briasco c'erano anche 150/ 200 persone da 'traghettare”.
Vita da partigiano: contatti tra un distaccamento e l'altro, ricerca di vettovaglie, trasferimenti...
E un ricordo che fa male. All'inizio del '44 due partigiani tra i più bravi, coraggiosi e più attrezzati militarmente, Livio e Tom, rapiscono Moscatelli. Lo sgomento è grande, nessuno capisce perché né dove l'abbiano portato. Pochi giorni dopo Moscatelli viene ritrovato e i due arrestati e processati. Tutto il raggruppamento è convocato e costituisce la giuria. Si chiede la condanna a morte. Gaspare Pajetta, appena rientrato da Omegna, dice di volersi astenere perché vorrebbe capire di più; Orlando un po' per amicizia un po' perché neppure lui conosce bene tutta la vicenda, ha la stessa posizione, ma Eraldo Gastone si arrabbia terribilmente coi due ragazzi: "Non avete capito un tubo! Questo reato in tempo di guerra è gravissimo e non ci può essere spazio per le esitazioni". La fucilazione è decisa, all'unanimità. Di quel pomeriggio di gennaio, alle cinque, col sole che illuminava il pianoro col fossato di cemento, Orlando ricorda la dignità con cui i due hanno diviso l'ultima e unica sigaretta e sono caduti senza fare una piega. "Ma io non ho voluto far parte del plotone di esecuzione” dice con la voce che un pò gli si incrina, e non vuole scegliere nessuna delle molte spiegazioni che si son volute tentare dello strano rapimento. Ce le dice tutte, però.
Il racconto torna sui più tranquilli -si fa per dire!- binari della quotidianità partigiana. Una quotidianità che a noi sembra quasi una leggenda, ma che lui racconta senza enfasi, con un sorriso ogni tanto, forse per sdrammatizzare gli eventi o forse per farci capire che non c'era niente di eroico nell'agire dei partigiani, che loro facevano solo la cosa giusta, come conseguenza di scelte già fatte o pensate prima. Ci si nasconde nei boschi per sfuggire ai rastrellamenti; si cammina tanto, di notte, per cambiare posto, per dormire almeno ogni tanto al coperto, in un casone magari. Freddo. Fame. Paura. La notte attraversata dagli spari. Paesi incendiati. Abitanti impiccati. Bisogna andare in ricognizione. Avvisare i compagni del pericolo. Bisogna fare la guardia. Aspettare il cambio. E quando il cambio non arriva?
Il racconto si infittisce di luoghi: Grignasco, Varallo, la Cremosina, Castagnea, Cavagliano, i boschi della Cacciana, la Cascina Bindilina, il Penerà, la Madonna del Sasso, S. Maurizio d'Opaglio... alla bocchetta della Valle Strona ci sono due metri di neve e tanto freddo (-10° quando fa caldo e -15° quando fa freddo). Personaggi sbucano dalle storie, pronti ad entrare anche loro nel mito. Il Rosso; il Ranghin; l'uomo col passamontagna che poi era un ex generale dell’esercito; Pesgo il panettiere, capo della Brigata Osella; Luciano, libero di circolare perché mutilato di guerra e congedato; il "calzolaio" siciliano, che vuole andare contro i carri armati con le bottiglie Molotov e viene immediatamente ammazzato dai tedeschi...
Ancora fame, fame, fame; il pentolone di risotto sbranato in un attimo, dopo tre giorni di digiuno, da Orlando e tre suoi compagni che ne chiedono subito un altro alla signora che glielo aveva preparato e che li aveva pure rivestiti tutti e quattro. Ma lei aveva avuto il marito sul fronte Russo.
A volte si prendono degli abbagli che si pagano cari. Una volta, Orlando era di pattuglia su una montagnola nei pressi di Gozzano con altri otto partigiani. Uno scende a vedere come mai non arrivano i rifornimenti aspettati. Poco dopo appaiono due autoblindo, precedute da uomini che parevano vestiti da partigiani. Sono i nostri! (da giorni circolava la voce che fossero stati sequestrati appunto due autoblindo). Gli otto si sporgono per vedere meglio, ma dietro gli autoblindo ecco un sacco di elmetti fascisti... e cominciano a sparare contro i partigiani ormai usciti allo scoperto. Sette scappano a rotta di collo, anche Orlando arraffa la coperta che si portava sempre a tracolla e si butta a correre, fino ad Ameno. Ma lì è tutto occupato dai fascisti. Deve quindi salire al Mottarone per poi ridiscendere. Ancora tre giorni senza mangiare. Quando finalmente arriva in un paese coi negozi aperti chiede un panino col burro, e lo paga coi "buoni con su Garibaldi" - I buoni che si sarebbero dovuti rimborsare dopo la Liberazione.- Ma al primo boccone rimette tutto, tanto la fame arretrata gli aveva ristretto lo stomaco
E la guerriglia, perché di guerriglia si tratta, continua, anche dopo il gennaio del '45 quando il Generale Alexander proclama il rientro dei Partigiani. Ma le Brigate Garibaldi non ubbidiscono, anche perché si univano a loro in montagna sempre più giovani, ed i lanci alleati procuravano armi sempre migliori.
Ancora qualche ricordo. A gennaio del '45 Orlando, nominato Commissario politico col nome di battaglia Memo, è in missione nel territorio di Mortara. Percorre in bicicletta, di notte, strade di campagna coperte di neve. La bici scivola, lui cade e si rompe malamente il femore. I suoi due compagni lo caricano in spalla urlante per il dolore e lo portano in una casa, dove resta per tre giorni disteso su un tavolaccio. "Mi sono morti tutti i pidocchi dalla febbre che avevo!". Finalmente arriva in bicicletta il Medico capo del Reparto di Pediatria dell'Ospedale di Novara e lo ingessa. Ma serve una radiografia. Lo portano a Palestro all’Ospedalino, dove il medico gli regala anche due pacchetti di sigarette Africa orientale Italiana. All'uscita li aspettano quattro brigatisti neri: vogliono rompere il gesso per verificare che non ci siano ferite di arma da fuoco. Ma uno dei compagni di Orlando garantisce che non è così: hanno trovato il poveretto per strada, caduto dalla bici, col femore rotto; l'hanno fatto curare. I militi devono credergli, perché lui ha la tessera del Partito Fascista Repubblicano, e la mostra. Il compagno era il Luison, uno che girava con una Balilla a tre marce, e per avere libertà di movimento doveva possedere le giuste credenziali (!). Non è finita. La gamba per guarire deve essere tenuta in trazione, all'Ospedale Maggiore di Novara. Orlando ha bisogno di documenti falsi; li avrà e col nome di Varini Pietro da Confidenza sarà ricoverato e affidato alle cure del dott. Lampugnani e del dott. Busti, amici dei partigiani. Al Maggiore c'è anche Luciano, uno dei compagni di Orlando nel frattempo trovati e pestati dai fascisti; Luciano, ferito alla pancia e molto mal ridotto è ricoverato in una stanza con le sbarre perché appena si rimette - ma i medici continuano a dire che le sue condizioni restano gravi anche quando non è più così -, sarà processato a Torino; per questo minaccia ogni giorno di suicidarsi. Bisogna salvarlo.
Ancora una volta risolve le cose il Luison: il 30 di marzo arriva in autoambulanza, preleva Luciano e pure Orlando; le due guardie, l’Uberti e il Belotti, due pugili dilettanti, si mettono a piangere disperati e così il Luison porta via anche loro. Il giorno dopo tutti i medici del Reparto di Chirurgia ed il primario prof. Fornara sono arrestati e trattenuti per due giorni, poi rilasciati per mancanza di prove. Orlando resterà nascosto a Cavaglio fino al 23 o al 24 aprile in una cantina predisposta.
Il 24 aprile Andrei, comandante della Nuova Brigata Pizio Creta, chiede ad Orlando che conosce bene le strade e i paesini di guidarlo a Novara; così entrano gloriosi al Torrion Quartara, con una jeep rubata ai tedeschi, con tanto di mitragliatrice tedesca da 2000 colpi al minuto. I fascisti erano spariti tutti il giorno prima. Il 26 aprile i tedeschi invitati da Monsignor Ossola, Vescovo di Novara a cui il Comando partigiano avevano chiesto la mediazione in una trattativa firmano la resa condizionata: si arrendono, ma consegneranno le armi solo alle truppe alleate.
La guerra è finita, ma non ancora per Orlando, impegnato in nuove avventure.
Il 29 viene mandato a Castellazzo, dove dal 25 aprile c'erano i fascisti di Vercelli col loro prefetto, 1700 in tutto. I partigiani li circondano in 500 e quelli si arrendono, più che altro per fame, e vengono convogliati allo Stadio di via Alcarotti. Quando i partigiani stanno per salire sui loro sette camion, arrivano dall'autostrada per Milano due cacciabombardieri alleati; si abbassano; Orlando fa in tempo ad urlare "Tutti nel fosso che arrivano i nemici!"; i sette camion sono tutti bruciati dal fuoco amico, nonostante che avessero i contrassegni stabiliti via radio per non essere mitragliati (la bandiera tricolore con la stella bianca a cinque punte in mezzo). A Novara coi prigionieri si va a piedi.
Il 30 aprile ad Orlando viene dato l'ordine di raccogliere le bombe (disinnescate) abbandonate sulla strada da Borgomanero a Novara. Dopo Cressa, il motofurgone esce di strada, Orlando cade, picchia la testa su un paracarro, rotola nella riva, il cassone del motofurgone gli cade addosso e gli si rompe di nuovo il femore sinistro.
Dopo l'Ospedale militare, il 15 luglio Orlando si presenta in fabbrica per essere riassunto. Tornerà al lavoro dopo Agosto. "Questa è stata la mia Liberazione. Tre giorni. Ho visto tre giorni la Liberazione. E basta".

 

 

Qui finisce il racconto di Orlando. Ma Roberto ha ancora un paio di domande che toccano i nodi più dolenti della questione fascismo / antifascismo. Le ragioni dei partigiani sono chiare e si riassumono nel desiderio di libertà maturato dopo tante vessazioni piccole e grandi. Ma gli altri italiani erano proprio tutti fascisti? E i fascisti in che cosa credevano? perché combattevano? La risposta di Orlando è pacata: fascisti veri erano gli squadristi e i brigatisti neri, quelli che volevano continuare a fare il gradasso con i più deboli. La stragrande maggioranza degli italiani dopo l'8 settembre credeva solo nella fine della guerra. Solo quella aspettava e non certo le miracolose armi tedesche, come dice qualche storico. Quanto a chi aderiva alla Repubblica di Salò, Orlando è certo che fosse motivato solo dalla paura, per sé e per i propri genitori, e dalla convinzione, suggerita dai manifesti appesi ovunque, che i partigiani erano affamati e quindi avrebbero respinto chi volesse raggiungerli.
Altra domanda: è servita davvero la Resistenza? O sarebbero bastati gli alleati a liberare l'Italia, come si tenta di dire? Anche su questo Orlando non ha dubbi. Gli angloamericani avevano bisogno di un efficiente servizio di informazione nel Paese, e questo era fornito bene dai partigiani. Avevano inoltre bisogno della guerriglia per creare più difficoltà possibile a tedeschi e repubblichini: basti pensare che nel solo Piemonte una intera divisione tedesca di 12000 uomini comandati dal Generale Kesserling era tenuta lontana dal fronte. Ma a dar credito alla nostra guerriglia erano soprattutto gli Americani, che lanciavano armi efficienti. Gli inglesi, col primo lancio in grande stile, avevano mandato metri e metri di micce, plastico, fucili '91, sten 100, sigarette e ...saracchel
Ancora una cosa ci vuole dire Orlando, da bravo sindacalista capace di "mediare”/: dopo il '45 e finché il sindacalismo è stato unitario, in fabbrica è prevalso il senso della ricostruzione morale del paese, la necessità di ripristinare un tessuto industriale capace di imporsi sui mercati internazionali, la volontà di collaborazione con gli imprenditori.

 
 
 
1 Qui si impone una nota, poiché emerge la vecchia anima del sindacalista. Il Podestà stava nella casa del Fascio, nel palazzo dove ora c'è la Questura di Novara. Il palazzo era stato costruito con i soldi dei lavoratori, a cui era stato imposto di "offrire" una giornata di lavoro, pari, per i metalmeccanici qualificati, a £ 26,50, nel 1939. Ma Orlando ricorda che nel Biennio Rosso (1919), la FIOM aveva ottenuto un salario di £ 32 per 8 ore di lavoro. Questo a riprova, se mai ce ne fosse ancora bisogno, della vocazione antioperaia del fascismo!
2 II suo riferimento è il P.C.I. di Leonardi, tornato dal confino. Leonardi sarà arrestato alla Cascina Aurora, dove allevava polli e spedito a  Mauthausen. Orlando ricorda le riunioni difficili, nella cantina della trattoria Scalo Nord ; ma bisognava tener viva l'attenzione, elaborare la propaganda antifascista...

 

Hanno raccolto l'intervista ad Orlando Foglio: Roberto MANZINI e M.Paola ASSALI
Ha riscritto la storia: M.Paola ASSALI
Ha curato la grafica: Mauro PAGANI
Stampato in proprio - Novara, via Mameli 7/b aprile 2009